“Into the wild” ci ricorda che con la natura non si scherza: essa non è il paradiso, né la via di fuga che Christopher probabilmente cercava
32 anni fa moriva in Alaska, nel Denali National Park, il giovane Christopher McCandless, il viaggiatore americano reso celebre dal racconto di Jon Krakauer “Nelle terre estreme” (1996) e dal film “Into the wild” (2007) diretto da Sean Penn. Cosa ci insegna la sua triste parabola? Una riflessione sul nostro rapporto con la Natura che parte da Henry David Thoreau, attraversa la riflessione più recente dell’antropologo Bruno Latour e si conclude tra le pagine di Lev Tolstoj
di cui il Comitato scientifico dell’AltraMontagna è garante.
Il 18 agosto del 1992 moriva in solitudine a soli 24 anni, nel Denali National Park, il parco dell’Alaska che prende il nome dalla cima più alta del Nord America (ex Mount Mckinley, 6194 metri), il giovane Christopher McCandless.
Era giunto lì nell’aprile del 1992, con la volontà di vivere in solitudine per un certo periodo, ispirato dal fascino per la Natura selvaggia di Henry David Thoreau. Il suo cadavere venne ritrovato il 6 settembre successivo da due cacciatori d’alci, probabilmente morto di fame e di freddo (pesava 30 kg), anche se c’è chi sostiene che la morte sia sopraggiunta a causa di un avvelenamento da semi di Hedysarum alpinum.
Figlio di famiglia benestante, Chris decise di mettersi in viaggio verso il mitico “West” americano dopo la laurea in Storia e Antropologia conseguita nel 1990 alla Emory University di Atlanta. Trascorse gli ultimi mesi della sua vita nei boschi dell'Alaska, avendo come unico rifugio un vecchio autobus abbandonato, che soprannominò Magic Bus, in cui riuscì a sopravvivere per un certo periodo con l'ausilio di pochi strumenti: un fucile Remington con cui procacciarsi della selvaggina, una sacca di riso, un libro sulle piante autoctone commestibili, una mappa del luogo e pochi altri oggetti da campo.
Nel bus sono stati ritrovati anche i suoi appunti di viaggio, che Jon Krakauer ha trasformato in un libro: Nelle terre estreme (1996), da cui successivamente Sean Penn ha tratto il film Into the wild (2007), film che lo ha reso celebre in tutto il mondo. Chris McCandless è divenuto un simbolo della ricerca di libertà e di una mistica della Natura di chiara impronta romantica. La sua vicenda ci dà l’opportunità di una riflessione sul nostro ambivalente e controverso rapporto con la Natura, suggerendoci almeno tre lezioni importanti.
La prima. La vicenda di Chris ci svela la forza e insieme l’estrema pericolosità delle nostre costruzioni culturali, quando queste ci allontanano al punto da perdere contatto con la realtà stessa. Il suo viaggio verso l’Alaska, alimentato da una delle costruzioni culturali più potenti della contemporaneità, quella di una Natura con la maiuscola che diventa regno della libertà, è ispirato da scrittori romantici americani come Walt Whitman, Ralph Emerson, Henry David Thoreau: infatuato dai loro scritti, Chris vede nella Natura solo una fonte di benessere, di pacificazione esistenziale, di libertà assoluta che coincide con la solitudine e il bisogno di allontanarsi dalla società, di perdersi "into the wild". Proprio per gli innumerevoli (e spesso ingannevoli) significati attribuiti nel tempo a un concetto culturale come quello di “natura”, l’antropologo Bruno Latour, nel suo recente libro La sfida di Gaia (2020), ci mette in guardia: la Natura è, come la Gaia della mitologia, potenza ctonia, tetra, figura di violenza antecedente e contraddittoria, che fa il bello e il cattivo tempo: tutt’altro che una figura dell’armonia. Per questo Latour suggerisce di adottare “la sana abitudine” di racchiudere con cura la “natura” fra virgolette protettive.
La seconda. Quale che sia la nostra idea di Natura, la nostra relazione conoscitiva con il mondo non può che passare attraverso l’esperienza. Chris, nel suo pellegrinaggio romantico verso la libertà, dimostra più volte la propria imperizia: intraprende inizialmente il suo viaggio con una Datsun B210 gialla, che verrà ritrovata nel deserto del Mojave, dove l’aveva abbandonata a causa di un'inondazione proveniente dal fiume sul quale si era accampato, ignaro delle dinamiche fisiche di un corso d’acqua; poco prima di morire, nel luglio 1992 si mise in marcia, probabilmente alla ricerca di aiuto, ma dopo aver camminato per due giorni capì che il fiume che qualche settimana prima aveva attraversato senza difficoltà era in piena, gonfiato dal disgelo dei ghiacciai, e fu costretto a tornare a quel Magic Bus che, a dispetto del nome, diventerà la sua tomba. La fine di Chris ci ricorda che con la natura non si scherza: essa non è il paradiso, che Christopher probabilmente cercava ingabbiato in quel pensiero oppositivo tipicamente moderno che vedeva come via di fuga da una dimensione familiare e sociale in crisi qualcosa di contrapposto e totalmente “altro” dall’umano. Nella sua ricerca di una simbiosi con la natura, Chris ignora la lezione del filosofo Whitehead: quella “biforcazione della Natura” che l’ha ipostatizzata e separata dall’umano, rendendoci di colpo analfabeti, incapaci di leggerne le dinamiche e interpretarne le relazioni, di conviverci o di salvaguardarci dai suoi contraccolpi. È il destino non solo suo, ma di molti emuli che si sono messi in viaggio verso quel bus-icona immerso nella natura, in un'area non attrezzata, senza copertura di rete e in condizioni meteo non sempre prevedibili: gli incidenti anche mortali generati da escursionisti troppo incauti hanno costretto le autorità del Parco a rimuovere il Magic Bus nel giugno 2020.
La terza lezione Chris ce la regala nei suoi ultimi istanti di vita, quando riscopre la lezione di Lev Tolstoj lasciando tra i suoi appunti la frase: “La felicità è reale solo se condivisa”, ripresa dall’opera La felicità familiare dello scrittore russo. Una frase che segna forse il disincanto finale e definitivo rispetto all’ideale a lungo inseguito di una felicità nella solitudine della natura selvaggia. Anche in questo caso ci pare interessante mettere in connessione l’ultimo pensiero di Chris con la riflessione di Bruno Latour: perché nella condivisione c’è felicità? Probabilmente per una delle regole generali della vita. A dispetto di ogni separazione tra uomo e natura, la capacità di organizzare tutto intorno un ambiente adatto alla propria specie, appartiene all’ordine generale dei viventi: vale per gli umani ma anche per gli altri esseri animali e vegetali. Su questa terra nessuno è passivo, e nessuno è in grado di salvarsi da solo. Ogni specie cerca di perpetuare o migliorare le proprie condizioni di vita. La ricerca della felicità ci conduce allora alle sorgenti della vita, che è il tentativo di ricavarsi una nicchia sicura all’interno di quel Far West che ci ostiniamo a chiamare benevolmente Natura.